Prima Pagina
Album
Arabesque
Cassetto
Libreria
Links
Note a margine
Scrivici


La galleria di Arabesques

A pagina 3 Galleria precedente
4
Segue A pagina 5


ALDO NEGRIN
aldo.negrin@virgilio.it

Caro Chichingiolo,
il "nostro" (perdona l'impudenza dell'ultimo arrivato!) sito, riportando nomi, indirizzi, ricordi, foto e fatti per celebrare il nostro comune passato, non preclude ma al contrario ci invita a sostanziare i nostri ricordi con altri temi. La nostra generazione dispone di un patrimonio riguardante le origini, la vita nonché l'eredità culturale e sentimentale che ci ha formati dandoci quella "marcia" in più rispetto ai nostri coetanei (ma non conterranei!) che ci permette di dire ai nostri figli: guardate che alle spalle voi avete non una o due famiglie, ma tutto l'insieme delle famiglie che vivevano nella "nostra"terra, perché in realtà era una, sola, grande, stupenda Famiglia! E ciò lo si può constatare semplicemente scorrendo le pagine de "Il Chichingiolo"!
Ed è per questo che ti allego i miei ricordi di una Famiglia fantastica, formata solo da ragazze divenute con il tempo donne, madri ed attualmente nonne e forse bisnonne, alle quali dedico i miei più affettuosi saluti e ringraziamenti per quello che mi hanno insegnato con il loro esempio del modo di affrontare la vita nel bene e nel male!
(02/03/04)

------------------------------------

"SETTE BELLE SORELLE PER…….. " ovvero: BREVE RICORDO DI UNA "NOSTRA" FAMIGLIA
DEDICATO A: Silvana , Mamma Antonietta e tutte le Zie!
Casa mia era di fronte ad una gigantesca palma da dattero, con a fianco dei munifici alberi di zeitun, delle varietà rosso e bianco. I frutti in teoria erano della famiglia Paputzakis (!), in realtà ne beneficiavano tutti del vicinato, purché non cercassimo di … allungare autonomamente le mani al di sopra del muro di cinta in muratura!
Sul lato destro di casa mia, vi era uno stretto passaggio che portava all'ingresso di altre due abitazioni, e quella che in questo momento vorrei menzionare era l'abitazione di mamma Antonietta, la cui famiglia era completata da papà Ugo e da due figli, un maschietto con i boccoli biondi tutto paffutello e rotondetto e la sorellina più piccola. Questo passaggio, praticamente un piccolo corridoio tra le case, era solito risuonare nelle prime ore del pomeriggio, quando gli anziani riposavano nell'attesa del passaggio delle ore più calde, di risate più o meno sommesse e continui passaggi. Essendo la mia cameretta contigua, potevo origliare a piacimento su alcune di queste belle sorelle che con la scusa di raggiungere l'Antonietta, vi si davano appuntamento con i loro "fidanzatini".
Mamma Antonietta era parte della Famiglia B., abitante due isolati più giù, sul lato sinistro della strada che dipartendosi dalla sommità della collina, scendeva per poi risalire attraversando tutto il quartiere degli orefici fino al piazzale della moschea su in alto. La strada era un continuo risuonare del tintinnio dei martelli utilizzati dagli orefici per preparare tutti quei monili così ricercati dagli abitanti locali e dai molti visitatori che venivano dalle altre città, mentre nell'aria echeggiava ad intervalli regolari il richiamo del muezzin che dall'alto del minareto ricordava a tutti che vi erano anche altri interessi da salvaguardare.
La casa della Famiglia B. confinava nella parte bassa, dove era situata la veranda, con la strada che costeggiando il mercato all'aperto (dove noi restavamo con gli occhi sgranati davanti ai mille colori dei fili di perline e coralli, alle polveri per ombretto (koelì) che donne e uomini indistintamente utilizzavano per sottolineare i loro sguardi vuoi maliziosi per le une come misteriosi per gli altri, ed alle bancarelle con ogni tipo di spezie e profumi, le "fute" esposte con i loro colori sgargianti) e lambendo poi il nostro Cimitero degli Eroi di Guerra, con i vialetti bianchi e le mille e mille croci svettanti sullo sfondo della collina, si congiungeva infine alla carrabile che portava ai lussureggianti giardini, famosi per i frutti di ogni specie.
In quella casa, il cui ingresso laterale in lamiera battuta di color verde, tre gradini a scendere per raggiungere il cortile superiore, abitavano sette sorelle ( ed un solo fratello!) che sono rimaste impresse profondamente nella mia memoria poiché oltre alle loro qualità personali, facevano parte di una famiglia che per i miei occhi di bambino prima e poi più tardi nella mia gioventù erano la rappresentazione di come doveva essere in realtà LA FAMIGLIA!
Papà B. era un signore di una certa età, non molto alto, con una bella barba fluente e molto curata, e due fantastici baffi a manubrio rivolti all'insù. Egli passava di fronte a me, accoccolato sul gradino d'ingresso di casa mia, svariate volte al giorno, per raggiungere il luogo di lavoro o ritornando a casa, ed io avevo, nella mia beata ed incosciente adolescenza, tutto il tempo di osservarlo, in particolar modo quando rientrava dalle funzioni religiose domenicali, sempre molto elegante nei suoi abiti chiari, con cappello e bastone dal manico ricurvo ed eventualmente la giacca appoggiata ad un braccio, se faceva particolarmente caldo, ed all'altro braccio Mamma B., una bella matrona con tanti capelli neri raccolti nella retina, più alta di lui, con quel bel colorito che oggi conosco come mediterraneo, e dietro le figlie.
Ebbi varie occasioni, con i miei genitori e con la galassia di parenti e conoscenti che ruotava attorno a questa splendida Famiglia, di visitare quella casa, dove per me, primo di quattro fratelli, era come entrare in un mondo fantastico pieno di misteri e belle sorprese, dove tutte le fanciulle erano molto più grandi di me.
Di Antonietta, una delle sette sorelle, vi ho già accennato; Rosina aveva preso tutto da Mamma B.: la compostezza, bellezza e sobrietà. Teresa, la bella Teresa, con i capelli sciolti sulle spalle, sorriso radioso e (permettetemelo, anche a quella mia tenera età!) belle gambe era il sogno di noi adolescenti! Poi vi erano Lorenzina, tutta pepe e scatenata, dal sorriso malandrino, Giuseppina giusto l'opposto per carattere, ma quella che più mi colpiva era Elvira, che per quegli strani meccanismi del fato, aveva un marito che le causava seri dispiaceri, lei tanto gentile e bella. Mi pareva una vera martire, capace com'era di affrontare con una serenità e forza i continui problemi senza mai scomporsi, accettando tutto quello che la vita aveva in serbo per lei. Infine vi era Anna, a completare questo microcosmo famigliare, unito e dove ognuno rispettava il proprio ruolo e non cercava mai di prevaricare l'altro.
Aldo

SILVANA CORSINI
csilvana@bresciaonline.it

Caro Kikki, mi sento coinvolta.
Come non buttare giù due righe dopo aver letto su Keren, Elaberet...., insomma, casa mia?
Io, al contrario di Daniela, ad Elaberet andavo a fare le vacanze.
Ero davvero molto piccola, ma ricordo ancora le serate sotto le stelle, nel buio africano, con intorno ... le lucciole! Riempivano vasetti di vetro di piccole lucciole che resistevano il tempo di correre a casa e farle vedere.
Ero con Pia Giulietta Acquisto; Ninfa era un po' più grande e forse ci accompagnava a casa della loro nonna, verso la campagna, un po' più isolata dal gruppo di case appena fuori De Nadai.
E' inutile dirVi che la vacanza più bella era quella a MERSA GUL BUB.
Solo il viaggio per raggiungere la spiaggia era l'avventura più eccitante della mia vita.
Partenza in piena notte, rigorosamente con due Land-Rover perché il viaggio era davvero pericoloso e la zona disabitata. I soli abitanti erano i Rashiaida, i nomadi del deserto.
La strada era percorribile tranquillamente fino a Nacfa; forse un po' di tempo si perdeva per attraversare l'Anseba: bisognava controllare che non ci fosse in arrivo una "piena" e poi piano piano, con noi tutti in piedi sulla macchina senza telone, in modo da poter saltare giù di fretta, si attraversava il fiume nella zona meno alta e meno sassosa.
Dopo Nacfa era Africa pura!!! Si costeggiava il fiume evitando buche, sabbie mobili, tronchi e cespugli spinosissimi...
E poi finalmente la piana ... una distesa di sabbia e cespugli che non finiva più e che portava dritti verso il mare.
Se il pilota era stato attento, si arrivava vicino l'accampamento, altrimenti erano altri chilometri sotto il sole, pieni di polvere e sabbia, ma con un entusiasmo e una voglia di iniziare la vacanza che non facevano sentire la stanchezza a nessuno.
Sto cercando le foto, ma per ora ne ho trovate pochissime.
Presto vi racconterò di come passavamo quei giorni fuori dal mondo tra dune di sabbia e mare...
Ciao, Silvana

(02/03/04)

RITORNO IN ERITREA

Caro Chichingiolo,
Tornando dall'Asmara da poco, ho scoperto il vostro meraviglioso sito che seguirò costantemente.
Ti voglio riassumere le impressioni del mio recente viaggio in Eritrea, che di seguito trascrivo:
ho realizzato il grande sogno della mia vita: il 24 marzo 2004 (ora 3,00 del mattino), dopo quasi 52 anni, ho messo piede sul sacro suolo eritreo, in compagnia di due miei amici, i quali non erano direttamente interessati all'Eritrea in quanto sapevano vagamente che era stata la nostra colonia primogenita, erano attratti soltanto dalla curiosità di conoscere questa terra da me tanto decantata.
Al riguardo, devo dire che sono rimasti entusiasti, tant'è che hanno progettato un viaggio per il prossimo mese di agosto con lo scopo di dare una mano presso la comunità di Hebò gestita dalle suore di S. Vincenzo Ferrer.
Alle ore 9,00 sono uscito dall'Hotel Savannha, sito nei pressi della vecchia Via Garibaldi e, armato di telecamera e macchina fotografica, dopo avere respirato l'aria tersa e salubre rivisto i fiori turchini delle jacarande mi sono diretto percorrendo il Viale De Bono sul Corso Italia, soffermandomi di fronte alla Cattedrale, ove, non mi vergogno a dirlo, ho pianto per l'emozione. Tu ti chiederai: "ma dopo tanto tempo come hai fatto a ricordare la toponomastica italiana?" E' semplice: quando, nell'Agosto del 1951, ho lasciato l'Eritrea avevo quasi 11 anni, i ricordi di quel felice periodo mi sono rimasti impressi e poi avevo con me la carta topografica di Asmara inserita nel volume edito dalla Consociazione Turistica Italiana (ora TCI) del 1938, volume che mi è stato molto utile assieme a quello di Andrea Semplici ed alla Guida Lonely Planet. Ho, inoltre, potuto consultare una mappa recente ma con toponomastica del regime etiopico ed un'altra recentissima con toponomastica medesima variata. Scusa per il bisticcio.
Sono stato nella mia vecchia abitazione (ex Via Saseno) di fronte alla Chiesa Copta Nda Mariam, nel cui terrazzo eravamo asserragliati (la mia famiglia e tutti gli abitanti dello stabile) muniti di qualche revolver e bottiglie piene di benzina, durante i disordini fra copti e musulmani nel febbraio 1950. Ma per nostra fortuna non siamo stati importunati.
Ho visitato la mia aula scolatica presso la Scuola Elementare "Principe di Piemonte" (ora F. Buonarrotti) per gentile concessione dell'insegnante italiana Francesca Pecora.Visitare la Scuola è stato il momento più bello ed emozionante specialmente quando rispondevo, con un nodo alla gola, alle domande dei piccoli alunni.
Ho visitato tutta la città in lungo ed in largo, ho inoltre visitato Keren, Massaua, Adi Quala ed Adi Ugri (ora Mendeferà). Nel corso di tali visite sono andato a visitare il Cimitero di Asmara e quello di Keren, ove ho reso omaggio ai defunti (alcuni dei quali miei conoscenti ad Asmara) ed ai Caduti dell'ultima guerra (compreso le medaglie d'oro M. Visentini ad Asmara ed O. Lorenzini a Keren).
Ho visitato, con emozione, il Sacrario di Dogali e quello vicino a Adi Quala, ove sono conservati i resti dei Caduti di Adua. Mentre visitavo il Cimitero di Asmara, osservando le tombe e le lapidi, molte delle quali in stato di abbandono, ricordavo la descrizione fatta da Erminia Dell'Oro alla fine del cap. XXIV de "Il fiore di Merara".
Ho conosciuto molti italiani ed eritrei-italiani (ometto il termine meticci perché non mi piace) presso la Casa degli Italiani sita nell'ex Via Dabormida, dai quali sono stato accolto con molta simpatia. La sera per me era tappa obbligatoria recarmici ed incontrare il Segretario Vittorio Volpicella, Alberto Reffo e il simpatico Giuseppe, gestore del locale ottimo ristorante e tanti altri amici. Una sera ho assistito all'esibizione corale di un gruppo di ex alpini, i quali annualmente tornano in Asmara per opere umanitarie a favore dell'ospedale. In tale occasione ho avuto il piacere di conoscere il nostro Ambasciatore e la Ministra del Turismo. La serata si è conclusa con una bella cenetta offerta, penso, dall'Ambasciata d'Italia.
A Massaua sono andato a trovare Padre Protrasio Delfini, il quale è stato molto disponibile nei miei confronti. Poi ci siamo rivisti alla Cattedrale di Asmara e mi ha fatto omaggio di una vecchia copia del "Veritas et Vita", settimanale di mia antica conoscenza.
Asmara non è cambiata, anzi si è ingrandita, è molto pulita rispetto alle nostre città, è sicura e non vi è delinquenza, gli abitanti sono gentili, educati e disponibili. Qualche delusione: i vecchi palazzi sono in stato di abbandono. I negozi non sono più quelli di una volta, dal punto di vista delle merci offerte. Molto accattonaggio e molta miseria. I salari sono mediamente fra i 30 e 40 USD mensili. La gioventù è sparita: sono tutti al fronte. A proposito del quale, un amico eritreo, anch'esso militare è stato richiamato tre anni fa e sconosce la data del congedo; una amica mi ha riferito che la sorella si trova al fronte da circa 7 anni. La sera gira la ronda per cercare giovani che, se sprovvisti di documenti attestanti la frequenza presso un istituto d'istruzione o l'inserimento nel mondo del lavoro, vengono caricati, senza tanti complimenti, su camionette ed avviati subito in caserma per l'arruolamento, senza il tempo di passare da casa.
Una volta io, i miei amici ed una suora italiana della comunità vincenziana, a bordo di una Land Rover, ci siamo recati presso una missione nei pressi di un villaggio denominato Enda Gheorghes, oltre Adi Quala, nei pressi del confino eritreo - etiopico. L'auto era guidata dall'amico militare (in quei giorni in licenza). Durante il percorso, siamo stati fermati al primo dei dodici posti di blocco che ci siamo subiti; l'autista, per non perdere tempo, si è qualificato come militare in licenza. Non l'avesse mai fatto: in poche parole è salito in auto un altro militare armato per scortarci fino a destinazione e ritorno. No, non era una cortesia nei nostri riguardi, ma la scorta era addetta alla sorveglianza del nostro amico, per evitare che questi, come giornalmente fanno tanti altri militari, disertasse in territorio etiopico, da lì in Sudan e Libia ed infine tentare la grande avventura nel Canale di Sicilia.
A questo punto la suora è scesa dall'auto ed andò a parlare con il comandante garantendo, lasciando sul posto i propri documenti, per l'autista. Così siamo ripartiti senza scorta. Al ritorno la religiosa riebbe i documenti dopo che i militari si accertarono che il loro collega in licenza era con noi.
Sono rimasto molto dispiaciuto della situazione che vige in Eritrea e confido molto affinché la situazione fra Eritrea ed Etiopia si normalizzi e che non si parli più di guerre. Solo così gli Eritrei possano prendere la via dello sviluppo in quanto lo meritano, dopo tanti anni di lutti e rovine.
Essi sono un popolo di orgogliosi in quanto confidano di svilupparsi senza l'aiuto di nessuno. Io ho incominciato a volerli bene e li ammiro, però se non aprono agli investimenti stranieri, ho paura che non potranno mai realizzare le loro sacrosante aspirazioni.
Ho soggiornato in Eritrea per 14 giorni ed essa mi manca dal momento in cui sono partito. Ho nostalgia di quella terra, del clima, delle albe e dei tramonti, della tranquillità, degli amici e dei monelli che mi venivano dietro per il bacscis e perfino del pataccaro (era diventato la mia ombra lungo quel viale che una volta si chiamava Viale Mussolini e poi Corso Italia) che mi voleva rifilare i famosi talleri in argento di Maria Teresa (volgare imitazione).Un giorno, spazientito, dopo che lui mi rimproverava di non comprare nulla, lo portai al bar e gli offrii la colazione a base di paste e caffè.
Dimenticavo, la sera cenavamo alla Casa degli Italiani ed a mezzogiorno pranzavamo in una trattoria tipica (cucina perfettamente italiana ed anche zighinì, scirò e inghiera), molto pulita denominata "The Sun" ubicata nella Via O. Lorenzini, proprio dirimpetto alla Sinagoga. La proprietaria, un'eritrea reduce da molti anni di permanenza a Milano, si chiama Nancy Yacob. Il costo per un pranzo completo si aggira intorno ai 90 nacfa (circa 4 euro). L'euro è accettato molto volentieri, anzi più del dollaro. Le carte di credito sono in uso solo in qualche grande albergo. I telefoni cellulari sono entrati in funzione il 25 Marzo.
Conto di ritornare nella mia Asmara a Febbraio - Marzo del prossimo anno.
Se nel giornale hai un poco di spazio puoi pubblicare questo modesto pezzo
Grazie e cari saluti,
Francesco Consolo
xmabc@inwind.it
(23 Aprile 2004)

LA VENDITRICE DI INGHIERA (O INGERA, A ANGHERA)

Ve la ricordate? Ce n'erano tante, ma il paio da me conosciuto, anche se in tempi diversi, aveva così tante caratteristiche in comune da poter essere descritto come un'unica persona.Per andare ad acquistare l'inghiera si entrava in un cortile dove si affacciavano tante stanze, abitate da più famiglie. In un angolo, parzialmente ombreggiato da un pergolato e seminascosto dalla sporgenza del muro di cinta, che serviva anche da supporto al tettuccio di lamiera, c'era il mogogò, anzi ce n'erano due, sempre alimentati dal fuoco scoppiettante della legna che creava un po' di fumo subito disperso dal vento. Accosciata davanti e illuminata dalla fiamma c'era la venditrice, una donnetta minuscola, non più giovane, di età indefinibile, vestita con un abitino di cotone dai disegni scoloriti e con il capo parzialmente coperto da un fazzoletto che lasciava intravedere ciuffi di capelli grigi alle tempie. Il viso era magro e rugoso, più scavato sulle guance e con un paio di occhi gentili che si infossavano ancora di più quando sorrideva e metteva in mostra una dentatura quasi intatta. Al centro della fronte e sul dorso della mano destra erano tatuate due minuscole croci, quella sulla mano un po' più sbiadita. Ed erano appunto le mani, dalle dita incredibilmente lunghe, che mi affascinavano tanto. Screpolate, rugose, segnate dal tempo, provate dal duro lavoro, quelle mani si muovevano con precisione e destrezza ammirevoli; le seguivo nel momento in cui, per prima cosa, toglievano dal mogogò l'inghiera ormai cotta, sollevandola delicatamente ai bordi e facendola lentamente scivolare sul mosob, ampio piatto rotondo di paglia intrecciata, sul quale si raffreddava; poi, veloci, passavano un cencio grigiastro sulla superficie caldissima, ripulendola da qualsiasi residuo; infine, prelevando dalla tanica a fianco un misurino colmo della pastella di taf, lo versavano sulla nera piastra rovente con un rapido movimento circolare. Come sembrava facile e semplice, all'apparenza, creare quel primo cerchio esterno perfetto, prontamente seguito dagli altri cerchi concentrici fino a che l'ultima goccia dell'impasto andava, con precisione matematica, a colmare il centro della piastra, coprendola uniformemente. E poi, quando sulla superficie liscia della pastella incominciavano a comparire tanti minuscoli crateri, un grosso coperchio a forma di cono andava a coprire il tutto così da fare terminare la cottura. Quanti minuti? Orologi non ce n'erano in giro, ma, ad un certo punto, misteriosamente, come se ci fosse un cicalino nascosto e percepito solo da lei, la donna sollevava il coperchio ed ecco l'inghiera pronta e fumante, con la sua consistenza tipica ed il profumo inconfondibile.
Al momento di pagare, se c'era bisogno del resto, la venditrice tirava fuori della tasca una manciata di dollari di carta, piegati e ripiegati in quadratini così minuscoli che era difficile srotolarli senza strapparli. Accomiatandomi, con le inghiere ancora tiepide avvolte nella tovaglietta bianca, sollevavo il viso verso quello accaldato di lei che mi salutava con un sorriso stanco e la rivedo in piedi, sotto il pergolato, incorniciata dalle foglie della vite che, illuminate dal sole e mosse dal vento, creavano degli strani giochi di ombre e luci su quel volto provato, restituendogli per un attimo la levigatezza e la freschezza della gioventù e facendolo apparire quasi bello.
Elvira Romano
(17 Luglio 2004)

A pagina 3 Galleria precedente
4
Segue A pagina 5