Prima Pagina
Album
Arabesque
Cassetto
Libreria
Links
Note a margine
Scrivici


La galleria di Arabesques

A pagina 2 Galleria precedente
3
SegueA pagina 4


Natale 2003


Pure una enorme stella splendeva dalla sera alla mattina sopra la grotta;
così grande non si era più vista dalla creazione del mondo
.

Aprire questa pagina, leggere "l'albero" di Daniela e i ricordi di Elvira ed essere catapultato indietro di trenta e più anni è stato tutt'uno. E' tornato prepotente il profumo dei rami di cipresso tagliati e affastellati intorno a uno striminzito e spoglio albero di Natale che ogni anno si decorava con somma riverenza e grande timore perché era facile lasciar cadere una pallina colorata e ... buscarle di santa ragione. E' tornato il ricordo della Messa di mezzanotte nella Chiesa di Gagiret, la lunga e snervante attesa, il freddo, il sonno vinto a fatica e poi la sorpresa dei regali che magicamente apparivano là sotto l'albero dove meno di un'ora prima c'era solo un tappetino tondo. E' tornato tutto accompagnato dal ricordo che non mancava mai il sole a Natale e nemmeno la brina e le notti stellate, e la ginestra in un angolo del giardino era sempre fiorita. Un momento, sento una voce amica che mi interrompe e mi dice ...
Ecco, volentieri prendo il braccio che mi offri e ti accompagno per le strade mattutine del giorno di festa, pochi i passanti, qualche occasionale mendicante, i venditori di mastiche e ... chichingioli non sono ancora in giro. Ci infiliamo nelle viuzze, quelle strette che stanno dietro il mercato delle spezie. Alcune porte sono aperte e sulla soglia c’è l’incensiera da cui l’incenso si alza in lievi volute biancastre impregnando l’aria intorno del suo profumo penetrante; si sentono rumori di stoviglie, qualche bambino piange, ma subito si acquieta; davanti ad un portone aperto si intravedono alcune donne sedute in semi cerchio a bere il caffè del gevena. Da qualche parte, in lontananza, si sente il rullo ritmico di un tamburo; passando davanti alla porta socchiusa di qualche cortile si vede una pecora appena macellata pendere dai garretti, pronta per essere ripulita e squartata; in altre case si sente lo starnazzare allarmato della gallina che sta per essere sacrificata a degna celebrazione della festa. Ogni tanto passa il compratore di pelli di pecore che lancia il suo caratteristico richiamo “Korvet, baal Korvet” (pelle, si compra pelle). La città è stranamente quieta, e capiamo perché quando passiamo davanti alla cattedrale copta. L’ampio cortile è letteralmente bianco, perché bianche sono le fute che coprono tutti, uomini e donne, come un unico ampio mantello che avvolge quell’umanità raccolta per adorare nostro Signore. Nell’aria, dagli altoparlanti, si libra il coro cantilenante dei preti che celebrano la messa in gee’z e l’incenso qui permea l’aria più forte che mai. Quell’aria frizzante e pulita, in cui sembrano sospesi tanti odori e profumi peculiari, ma tipici: l’odore della legna che brucia, di polvere sospesa nell’aria, di terra surriscaldata che emana anche a mezzanotte il calore solare immagazzinato durante il giorno. Se ci bendassero gli occhi e ci portassero in diversi paesi e poi ad Asmara, riconosceremmo la nostra città proprio da quei profumi caratteristici che inconsciamente stampati nella nostra memoria, affiorano al momento opportuno. Questo insieme di odori e profumi è come un bouquet ma non di fiori di serra, piuttosto di fiori di campo, di erbe selvatiche e fragranti e di rami brulli ma aromatici. Un bouquet non da ikebana, ma con un fascino tutto suo, perché era quello della nostra Asmara, senza neve, senza pioggia, solo gentilmente bagnata dalle brume del primo mattino subito possessivamente asciugate dal sole sotto quella indimenticabile volta celeste che nei giorni in cui ci sentivamo particolarmente felici sembrava ancora più azzurra e smaltata. E nei giorni di festa, come tu ben ricordi, centinaia di mogogò entravano in fuzione e allora l’odore di legna si mischiava a quello della cipolla che veniva soffritta per preparare lo zighini e ...

Questo Natale ci vede riuniti sotto un alberello diverso, un chichingiolo: è stato un anno di grandi emozioni, non c'è che dire. Rivolgo un cordiale e affettuoso augurio a voi tutti dandovi appuntamento al prossimo raduno di primavera per una rinnovata manciata di emozioni. Buon Natale e buon anno. Con affetto,

il Chichingiolo



A

chi
è nato
nel paese
dei 13 mesi di
sole splendente
e anche a chi non ci
è nato. A chi sa che la
nostalgia è quella via di
mezzo per la quale ami il pas-
sato e tutto ciò di bello che c'è
in esso, senza però credere che la
vita fosse migliore allora. A chi sa che
gli anni possono far venire le rughe alla
pelle, ma la rinuncia agli entusiasmi riempie
di rughe l'anima. A chi ha l'entusiasmo di un
bambino, ma pensieri da uomo. A chi vede nero solo
quando è buio. A chi legge il Chichingiolo e ne attinge
gioia. A chi, non leggendo il Chichingiolo, non sa cosa si perde.
A chi tanto si è adoperato per realizzarlo (grazie!). A chi saluta ancora
con un bacio. A chi si alza presto per aiutare un amico. A chi non aspetta Natale
per essere buono. A chi è felice il doppio quando fa a metà.
A tutti coloro che sanno pensare
in positivo,


Buon Natale!
Daniela
Toti

- - o O o - -

Ricordi di Natale

Nel corso di questi anni trascorsi lontano da Asmara, tutti noi, credo, abbiamo avuto modo di ammirare presepi vari per dimensione e stile, ma, a mio parere, quello della nostra infanzia, quello della nostra Cattedrale laggiù, che occupava l'altare laterale, a destra della navata centrale, è e rimarrà per sempre speciale e unico.
Con quanta cura e dovizia di particolari veniva allestito! Ricordo il telo blu punteggiato di stelline argentate, alcune delle quali, qua e là, avevano nel centro un lumino minuscolo che si accendeva ad intermittenza. Su quella volta celeste campeggiava, enorme, la stella cometa, la più luminosa. Sullo sfondo, la catena di colline dove svettavano un po' dovunque le palme verdeggianti. A mezza costa e negli avvallamenti facevano bella mostra di sè varie casette dai tetti spioventi, alcune con un minuscolo cortile recintato, completo di cane accovacciato a guardia dell'ingresso e di due o tre galline chine a beccare i semi da terra, altre con i panni stesi ad asciugare e la massaia intenta a trasportare brocche colme dell'acqua, appena tirata su dal pozzo. Il pozzo sembrava proprio fatto di pietra e vera era la corda sottile da cui pendeva un minuscolo secchio appoggiato sul bordo. In un angolo c'era un laghetto limpidissimo, alimentato da un ruscello che si faceva strada tra le rocce impervie dei monti lontani. Sulle colline, nelle valli, lungo i costoni apparivano statuette di varie dimensioni, nel rigoroso rispetto della prospettiva, ma tutte, anche le più minuscole, curate nei dettagli: viandanti con il loro modesto fardello sulle spalle, numerosi pastorelli, alcuni con l'agnellino appena nato tra le braccia, altri intenti a scendere al piano con il gregge; contadini con fasci di frumento o fastelli di legna, donne con cesti colmi di vivande sotto il braccio, anfore in bilico sulla testa e bambini attaccati alle vesti, tutti diretti verso la capanna illuminata dalla cometa. In un incavo del monte, il falegname, occupato a piallare un pezzo di legno, faceva compagnia al fabbro, poco più in là, illuminato dal fuoco della fucina. Le statue più vicine alla capanna erano grandi e molto belle. In particolare gli abiti dei Magi erano riccamente disegnati e mi incantavano i dettagli: la pantofola ricamata di uno, il turbante luccicante dell'altro, il mantello dal bordo dorato del terzo. Soffusi di una dolcezza unica erano i volti di Maria e del Bambinello; ben si accompagnava alla loro bellezza l'espressione serena e intenta di Giuseppe, col volto chino, incorniciato da una barba folta. Lo attorniavano, genuflessi o in piedi, appoggiati ai bastoni nodosi, i pastori con le numerose pecorelle accovacciate accanto alla mangiatoia, tra il bue e l'asinello.Mi rivedo in piedi, davanti a quel presepe, con il cuore che sprizzava gioia ed eccitazione, mentre gli occhi insaziabili si deliziavano di tutti quei particolari. Mi staccavo a fatica soltanto perché i rintocchi familiari delle campane mi riportavano al presente ed alle mille cose ancora da preparare prima di Natale: la lettera a Gesù Bambino, il ripasso della poesia che dovevo recitare quel fatidico giorno, la letterina di auguri ai genitori, tutta infarcita di belle promesse: diventare più buona, più brava, più ubbidiente, eccetera, copiata dalla lavagna con bella calligrafia (che fatica! e che tragedia costituiva la pur microscopica macchia di inchiostro sfuggita dal pennino!). Al momento di imbandire la tavola per il pranzo di Natale, tale letterina veniva nascosta con grande cura tra le pieghe del tovagliolo di papà che, scoprendola, doveva manifestare la più grande sorpresa e poi, inforcati gli occhiali, la leggeva a voce alta, con evidente piacere ed orgoglio. Allertato dalle occhiate "in codice" di mia madre, papà aveva imparato ad aprire il tovagliolo con estrema cautela per evitare che si ripetesse la tragedia di quella prima volta che, ignaro della tradizione che si stava per inaugurare, lo aveva spiegato con ampio svolazzo, facendo volare la povera letterina dentro il denso strato di ragù che copriva la pasta al forno ...
C'era, poi, l'albero di Natale da allestire in un angolo della sala da pranzo. Ognuno aveva il suo preciso incarico: mio padre lo metteva su, e già perché non era un albero vero e proprio. Ricordate? Bisognava andare alla forestale, vicino al laghetto, dove non vendevano abeti interi, ma soltanto dei rami di varia grandezza che bisognava mettere insieme. Quando il gruppo di rami, girati e rigirati, riaggiustati e riaccomodati tra scossoni e strattoni, tagli e ritoccatine, con l'ausilio di sega, bastoni di scope per supporto, fil di ferro e spago, incominciava a somigliare ad un albero, s'intende con una connotazione tutta sua, lo si teneva in piedi riempiendo il recipiente di base con sassi, ghiaia, mattoni, nascondendo il tutto sotto uno strato spesso di cotone, che rappresentava la neve. Se pendeva, e succedeva sempre che pendesse, lo si appoggiava contro l'angolo del muro, onde evitare pericolosi cedimenti e rovinose cadute. Poi, mentre mio padre, accaldato ma soddisfatto, si sedeva e, accendendo una sigaretta, si godeva il meritato riposo, toccava a mia madre ed a me adornare l'albero. Mamma - io ero troppo impaziente per farlo - aveva l'incarico di tirare fuori gli ornamenti di vetro soffiato, srotolandoli delicatamente dallo strato di carta in cui erano stati accuratamente avvolti e poi li passava a me; ricordo che, prima di attaccarli sui rami, mi soffermavo sempre ad ammirare i vari gingilli, dopo tutto, era come ritrovare delle vecchie conoscenze, scomparse per quasi un anno; ogni ninnolo aveva la sua bellezza, anche il più piccolo e modesto; e poi, c'erano i nuovi arrivati, perché in casa nostra era tradizione che ogni anno , per buon augurio, ne acquistassimo un paio e questi andavano ad occupare il posto d'onore, in prima fila, sul ramo più alto, poco sotto il puntale.
Infine, arrivava il momento, tutto e soltanto mio, di allestire il minuscolo presepe ai piedi dell'albero, un'inezia, un nonnulla se paragonato a quello della Cattedrale, ma un nonnulla che, ancor oggi, occupa un posto speciale nel mio cuore.
AUGURI a tutti i componenti di questa grande famiglia che è il Chichingiolo e al nostro straordinario "Chichingiolaro/Timoniere" che magicamente ci tiene uniti, assicurandoci una "navigazione" fantastica.

Elvira Romano
Dicembre 2003

21 Dicembre 2004

DEDICATO A UNA STELLA

Quando nelle lunghe notti d'estate rivolgo lo sguardo verso il cielo, cerco sempre, fra le tante, la stella più luminosa, quella più brillante. Quella stella, per un pensiero lasciato su un quaderno de I RICORDI, è per me lei, la mia compagna di classe, Loredana Stella che, appunto, in quel quaderno mi scriveva che mai mi sarei potuta dimenticare di un nome come il suo.
Poi un destino crudele l'ha strappata alla vita ed ai suoi affetti più cari ed io dapprima incredula, poi lentamente, con il passare degli anni, ho tentato di ricucire quello strappo, per me ancora oggi straziante, e di pensare a lei.
Lei sempre così discreta, gentile, e per quanto mi sforzi non mi riesce di ricordare uno screzio, un momento di alterazione, di insofferenza. Sembrava la delizia fatta persona. E mi piace pensarla con i suoi travestimenti, le sue maschere di carnevale, da rondine, da piumino della cipria, e quasi la rivedo, accanto a me, in un ricordo che vive nelle sue stesse parole:
"Carissima, se vai in Italia se piove o se nevica nel cielo vedi le stelle.
Se vai in Olanda nei campi di tulipani vedi le stelle.
Se vai in Africa nella giungla e nelle foreste, tra gli alberi vedi sempre le stelle.
Se vai nel Texas e monti su un cavallo, per fare un viaggio la notte quando accampi vedi le stelle.
Ovunque vai e vedi le stelle ricordati di me, perché io mi chiamo Stella Loredana che ti vuole bene fino all'infinito.
Asmara 27 maggio 1968"
Con affetto e.m.
Roma 30 gennaio 2004

DANIELA TOTI
pelizzari.toti@gmail.com

KEREN o CHEREN, ELABERET o ELABERED?

Caro Kikki,
Commossa dalla dedica di Aldo Negrin (vedi la pagina Tema: Il Chichingiolo, n.d.C.), ti invio un'altra pagina del mio diario, della Keren vista dai miei occhi da bambina. (Questa é la Keren dei miei ricordi, caro Aldo Negrin, e c'era anche l'albero dei "gugú"!)

___________________________________________________________________
Spesso da Elaberet si andava fino a Keren per la spesa, oppure alla sera per il cinema e, comunque, per andare a trovare gli zii.
Gli zii abitavano la vecchia casa del bisnonno "Barba". Una grande villa a due piani, con uno scantinato usato come rifugio antiaereo durante la guerra. Quello era un posto che ci affascinava in modo particolare. Infatti era ampio quanto il perimetro della casa stessa, ma buio ed abitato da pipistrelli. L'avventurarsi nello scantinato comportava coraggio, temerarietà. A dire il vero, non ricordo di averne mai raggiunto la parte più buia, e le incursioni erano rapidissime, tirando la maglietta o camicetta sulla testa a coprire i capelli dove - ci avevano detto - avrebbero potuto attaccarsi i pipistrelli.
Al piano rialzato c'era una bellissima, ampia veranda che circondava in un fresco abbraccio ombroso l'appartamento superiore dotato di varie porte-finestra per accedervi agevolmente. In veranda venivano serviti gli aperitivi, vero e proprio rituale kerenino, ed accolti gli ospiti. Alle volte veniva anche servito il pranzo. Il clima di Keren, mite tutto l'anno, permetteva questo uso perenne delle verande, che venivano arredate come veri e propri salotti. Le musharabie assicuravano ombra e frescura e costituivano anche un paravento a custodia della privacy. Le poltrone in corda di agave erano rese comode da morbidi cuscini, ed enormi otri in coccio ospitavano piante fiorite e profumate.
Quando sento parlare del periodo coloniale, io penso sempre alla veranda degli zii, che era stata del bisnonno "Barba", ed immediatamente mi sento circondare da quell'aria molle e profumata.
Alle volte gli zii mi invitavano a restare per qualche giorno. La parte più bella della giornata era quando, nel pomeriggio, dopo l'immancabile siesta che caratterizzava la vita di Keren, si andava a piedi fino in fornace, dove lavoravano gli zii.
Questo posto era un cantiere dove, (nell'ordine dei miei interessi) oltre ad un bellissimo frutteto e ad una popolosa piccionaia, vi era la fabbrica di mattoni. C'era tanto da fare e da vedere per me in quel giardino:
raccogliere - o farmi raccogliere - i frutti, andare a osservare le uova nelle cellette della piccionaia, spiare i piccioncini implumi, teneri ma brutti e sgraziati, correre in libertà tra file e file di mattoni messi ad essiccare per poi essere cotti nei forni. Dopo la pioggia, le escursioni erano ancora più interessanti perché strani animaletti uscivano dalla terra odorosa, quasi ad asciugarsi al sole dopo tanta acqua. Alcuni, in particolare mi incuriosivano moltissimo. Sembravano bottoncini di velluto rosso. Avevano la stessa morbidezza del velluto e la grandezza di un'unghia.
Poi c'erano le "formiche volanti" che volavano dappertutto e, alla sera, si ammassavano attorno alle lampadine.
Spesso, ma non tanto quanto mi sarebbe piaciuto, si andava al mercato. Il mercato di Keren rimane nei miei ricordi, per i suoi odori e colori, "il" mercato per eccellenza.
Cheren - I suoi colori, sapori e riti. (Foto: tutte Patrizia Reffo)
L'odore acre di saldatura della via degli orefici dove, accosciati, gli artigiani saldavano la filigrana soffiando in cannule piegate contro uno stoppino acceso, indirizzando il calore sul metallo appoggiato su una pietra.
I variopinti banchetti delle perline di vetro e dei braccialetti di plastica dai mille colori.
Le fute fucsia, turchesi, verdi, rosse, gialle con le quali si avvolgono le donne del bassopiano, leggere, impalpabili e odorose delle spezie con le quali avevano viaggiato dal luogo di acquisto prima di venire esposte. Oppure quelle maschili a quadri, o scozzesi, già cucite in cima.
Accanto ai sarti, che cucivano sulla via con antiche macchine da cucire NECCHI o SINGER, erano esposti gli harambé, le stoffe per le gellebie bianche, oppure pezze dai vivaci colori, con prevalenza di fiorami. Per terra, sulle stuoie, spezie, go-berberé, pepe, chiodi di garofano, henné, kemmem, noccioline, chichingioli, "kolo" (ceci e grano tostato) e tutta quella meravigliosa frutta: papaie, mango, annone, agrumi, banane.
Ed infine, le passeggiate dopo cena. Le strade bianche, illuminate da lampadine fioche, l'aria non più calda ma pur sempre tiepida e profumata da mille aromi, di fiori e non, con il canto dei grilli come sottofondo musicale ...
(22
/02/2004)
----------------------
Cara Lady D.,
Noi siamo più propensi a Cheren, Elaberet, Decamerè, Adi Ugri, Dorfù, Embatcalla, Ghinda, Massaua ... Sbaglieremo, ma ci piacciono così.
Lord Kikki

DANIELA TOTI
baoitalia@aliceposta.it

Lo spot pubblicitario ha la voce di Concato, e mi dice: “Tu che sei nata dove c’è sempre il sole , ...... e quel sole ce l'hai dentro al cuore, sole di primavera ...” ma oggi il sole non c’è, né c’era in quel febbraio, quando siamo arrivati ... Gli avvenimenti etiopici del 1975 avevano deciso per noi. Era giunta l’ora di lasciare la terra che consideravamo nostra perché ci aveva dato i natali ed una giovinezza serena, così piena di interessi e voglia di fare. Fino a quel momento il futuro era stato rosa, perché l’ottimismo di quella età lo pretende così. Le scelte dovevano essere ancora fatte ed il panorama era vasto ed allettante. Come spesso accade, la realtà si discosta sempre parecchio dai sogni e quella terra era in realtà nostra solo nel cuore. Lasciavamo il paese dei 13 mesi di sole splendente e arrivavamo in un'Italia che ci dava il benvenuto con la stessa pioggia ed il freddo di oggi. Nella poesia di Luciano Somma, C'E' ANCORA UN SUD, (*) trovo lo stato d’animo di quei giorni:
In questo deserto metropolitano
C'è ancora un sud
Nella mia memoria
Tra viali d'oleandri
E fichi d'india
Mi sembra ancora di sentire
Quasi a stordirmi
Quel profumo inebriante
D'agrumeti.

Quassù c'è nebbia
E volti che non ho mai conosciuto
E che saluto
Col mio nuovo vestito d'emigrante
Nascondo
Una lacrima
Confusa in mezzo
Ad un nevischio e pioggia.
Avevamo lasciato il cuore e la mente in Africa e guardavamo con perplessità questo nuovo ambiente; avevamo bisogno di trovarci a casa e ci trovavamo completamente straniti. La mentalità era molto diversa, là dove era successo il “68” e tutto era cambiato così radicalmente. E mentre al fronte eritreo si combatteva, ognuno di noi combatteva la battaglia che la vita ci presentava in quel momento. E' stata la lotta dell'inserimento in un paese, anche se non straniero, senz'altro estraneo. E' stata la fatica di ricominciare da zero. Abbiamo lavorato sodo per riprendere possesso delle nostre vite mutilate. Chi, come me, ha cercato un'altra Africa, è ripartito. E dopo anni di lavoro, ancora rivoluzioni, ancora guerre fratricide ispirate a falsi orizzonti. E ancora l'Italia, e tutto da capo.
Lo spot con la voce di Concato è stato sostituito dal Meteo: dice che il tempo migliorerà. Non più nevischio e pioggia, e il sole si porterà via anche questa tristezza domenicale.
Meno male.
(28/02/04)

(*) Vedi http://www.poetilandia.it/lucianosomma.html

A pagina 2 Galleria precedente
3
SegueA pagina 4