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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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Con assidua frequenza, il mal d'Africa si trova al centro di sproloqui sentiti alla radio o alla televisone oppure forma l'oggetto di pistolotti letterari talmente fasulli da sfiorare il ridicolo. All'ennesima corbelleria, desiderosi di giustizia, abbiamo riletto questo articolo vecchio di quasi 40 anni, apparso su Storia Illustrata (Febbraio 1966, n. 99 - Anno X, pag. 149). Per una incallita propensione a giocare con le parole, abbiamo anagrammato "mal d'africa" e ottenuto "cifra d'alma". Se si considera che "cifra" è omografo di "codice segreto" e "alma" vocabolo poetico per "anima", possiamo concludere che il nostro disagio non solo assume il silenzio e la sfumatura di un tramonto dai mille colori ma la forma di una scrittura segreta che solo l'anima può interpretare.

Chi ha vissuto nel continente nero facendo il soldato o l'agricoltore o il camionista ha provato il

MAL D'AFRICA

una nostalgia inguaribile per un mondo fatto di purezza e semplicità

Si è scritto spesso che il mal d'Africa consiste soprattutto in una specie di nostalgia da parte dell'uomo bianco, anche se plebeo, fallito o morto di fame, per una terra in cui era vissuto come un imperatore, circondato da servi. Evidentemente, chi ha dato questo giudizio ha conosciuto in Africa solo affaristi o razzisti superbi. Il mal d'Africa lo ha provato anche il soldatino inviatovi controvoglia; lo ha provato chi ha lavorato sodo come manovale per vent'anni; chi ha fatto l'impiegato doganale o il postino; chi ha seminato grano e chi ha piantato cotone; chi ha perforato la sabbia in cerca di petrolio; chi ha costruito strade lavorando a fianco degli indigeni; chi ha volato come pilota o come steward sul Continente Nero.

Ebbene, il mal d'Africa è per noi una condizione psicologica, che ha le sue origini nella stessa natura umana, la quale instancabilmente, lungo il corso della vita, corre dietro ai ricordi più antichi. Il viaggiatore, il soldato, il piantatore, il marinaio, il manovale, hanno trovato in Africa, inconsapevolmente, un ricordo del passato più lontano dell'umanità; qualcosa che i nostri antenati avevano e di cui ora noi abbiamo perduto conoscenza. L'Africa è l'immagine della terra primordiale, della Madre primeva che generò gli uomini nei miti di tutte le genti; è il solo continente apparentemente ancora senza tempo e senza confini.

Ogni anno, per una città che s'arricchisce di cinema e di luci al neon c'è una piantagione che viene mangiata dalla foresta, un fiume che cambia corso, una tribù che si rinselvatichisce. Ma ci sono anche lagune tranquille, paludi senza fine, altipiani azzurri, montagne di porpora, donne che sembrano create in quell'istante, vegetazione che esplode in una notte, erba che ingiallisce in un mattino, animali che obbediscono alle antiche leggi naturali.

Tutte le migrazioni di uccelli che noi europei vediamo passare nei nostri cieli vanno e vengono dall' Africa, tutte le nostre civiltà hanno origine dal mare che bagna l'Africa, le nostre stagioni mediterranee hanno un peso nella fornace del più grande deserto del mondo. Gli americani, e così gli asiatici, non subiscono il mal d'Africa: sono appena poche decine gli "insabbiati" in qualche remoto villaggio. Ma gli europei sono ancora a migliaia, angariati, odiati, combattuti, però restano, o ritornano. Molti hanno detto: "Non sono un missionario, né un esploratore, né un turista, voglio solo ritornare in Africa".

Gli americani hanno il West, le sue montagne e i suoi deserti, gli orientali hanno anch'essi i loro deserti e le montagne più alte del mondo; noi abbiamo l'Africa. Il deserto è stato per generazioni di inglesi un richiamo conturbante al di fuori dei loro interessi strategici; gli italiani hanno risalito il Nilo per cent'anni, ma non hanno tentato di impadronirsene; i francesi hanno viaggiato in Abissinia e nel Niger, ma non vi hanno condotto spedizioni militari. Dov'è allora la volontà di potenza? Questa si esercita per altre ragioni, o militari o economiche o demografiche.

Disse una volta Jomo Kenyatta, presidente del Kenya, che un uomo senza madre è come se ruotasse in orbita attorno a qualcosa a cui disperatamente cerca di aggrapparsi: un uomo rimasto solo cerca sempre un appiglio verso il più tenero ricordo della sua giovinezza. Ebbene, quando un uomo civilizzato giunge in Africa, sente di aver trovato un antico appiglio, qualcosa che cercava da tempo, non la libertà più assoluta di fare o strafare, dando ordini e facendosi servire (quello non genera mal d'Africa, quando lo si perde, ma solo rabbia impotente), ma avvincendosi in un legame, in un vincolo difficile da sciogliersi, in cui il suo spirito ritorna ai ricordi primordiali: il legame Terra-Uomo, il legame Uomo-Animali, il legame Cielo-Uomo, che non sono più gli artificiosi legami con la Civiltà moderna, il Lavoro, il Dovere, il Rispetto Umano, ma un vincolo che libera l'anima in un mondo di assoluta purezza.

Si può guardare negli occhi un africano e capire il perché del suo attaccamento alla fede degli antenati, alla verità dei fatti naturali, alla concordia delle specie nell'ordine dei rapporti dettati dai millenni.

Chiunque si avvicinerà all'Africa senza desideri di potenza subirà il mal d'Africa, chiunque vi stabilirà una legge dura e personale vi troverà un'amara sconfitta.

r. b.

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