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Le mani nel cassetto del Chichingiolo
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ELABERET (1961-1969)
di Daniela Toti

 

Appassionato di problemi economici e, in modo particolare, di tutti i problemi inerenti lo sviluppo dell'agricoltura, Papà (Luigi Toti) ricoprì per diversi anni la carica di direttore generale della Elaberet Estate Share Company, al nostro rientro dall'esperienza agricola rhodesiana.

I problemi dell'agricoltura moderna non riguardano la vendita dei prodotti ma bensì la produzione degli stessi. L'Etiopia é uno dei paesi più indicati per colmare almeno in parte le necessità di oltre 400 milioni di europei che chiedono verdure fresche e banane nei mesi invernali ed agrumi e banane nei mesi estivi.

Così recitava il titolo dell'articolo scritto da Papà per "Sestante", documentario semestrale illustrato della vita politica economica sociale dell'Etiopia, giugno 1966. E continuava:

[...] Poiché noi uomini d'oggi abbiamo il dovere di preparare pei nostri figli un migliore avvenire del nostro, un avvenire pacifico, prospero, sereno, dobbiamo lavorare alacremente. Presupponendo di avere i capitali necessari per attuare questo entusiasmante programma, sorgono due domande. Sapendo che esiste una disponibilità di terre, possiamo coltivarle o sarebbe necessaria una riforma agraria?
Sapendo che possiamo disporre di notevoli precipitazioni atmosferiche, possiamo contare su queste o sarebbe necessario porre al bando l'accetta ed estinguere le capre: primi nemici del povero patrimonio boschivo che solo ancora per qualche anno debolmente differenzia l'Eritrea dalla Dancalia?
La prima domanda pone in rilievo gli ostacoli che un qualsiasi operatore economico privato ha nell'affrontare la costruzione di dighe e nello sfruttamento razionale dei terreni a valle.
La seconda domanda, facendo eccezione per quelle imprese agricole serie e qualificate che sono costrette ad eseguire massicci disboscamenti per creare fertilissime e redditizie piantagioni intensive la cui flora non ostacola ma incrementa il fenomeno pluviale, vuole accentuare l'accorato inutile allarme lanciato qualche decennio fa da un illustre conoscitore di questi problemi.
Anche gli sparuti cespugli stanno scomparendo dal devastato altipiano eritreo un tempo coperto di un ricco manto verde di alberi ad alto fusto ed oggi miseramente brullo e completamente eroso.
Una sola generazione non sarà sufficiente forse per risanare il male inconsciamente provocato, per rimediare c'é ancora tempo, brevissimo ma sufficiente. I presagi ci sono: già noi vediamo un lento operoso esodo delle popolazioni valide che dall'altopiano si riversano senza accette e senza capre nel fertile bassopiano. Tutto sarà dissodato, bonificato con un duro, incessante lavoro il cui utile sarà diviso in parti uguali: una per il sostentamento delle popolazioni stesse, l'altra per il rimboschimento e la conservazione di queste alte terre, che, nuovamente coperte di verde, ricompenseranno i generosi figli a valle con piogge regolari ed abbondanti
.

Oh, Papà, ben altri tristi disegni aveva riservato il fato a quella terra così amata, e a noi, suoi figli aveva riservato altre sponde: " ... né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque … ".

***
ERA IL "GIARDINO"


L'ingresso

Noi abitavamo in una comoda villetta nel settore caseario. In altre parole tra le stalle, vicino al caseificio.
A parte l'odore proveniente dalle stalle, al quale tuttavia ci si abituava nel giro di qualche giorno, avevo con quella nostra seconda casa un bellissimo rapporto. La collego alla famiglia riunita, ritrovata, alla presenza di Papà; alla vacanza; a tutti quei bellissimi libri letti ora in veranda ora sull'altissimo letto di ferro che mi era stato assegnato; ad Ameté che si era trasferita lì con Papà per accudirlo maternamente quando era solo e noi eravamo ad Asmara; alle serate quando non si andava come di consueto su al "piazzale" ma si giocava con Papà a Monopoli; alle casse di mango che lo zio Alessio ci portava su da Cheren.
Tutti i settori erano recintati, e quello dove vivevamo noi comprendeva il Caseificio, appunto, dove erano preparati ottimi formaggi e veniva imbottigliato il latte pastorizzato e omogeneizzato, quindi la casa del casaro, tre edifici di stalle, la nostra casa, altre stalle e, ultima, la porcilaia.
Dietro vi era il mulino per la preparazione del mangime, la stalla dei tori da monta, quella dei vitellini per la vendita, quella delle vitelle da crescere per la produzione del latte, quindi le abitazioni del personale specializzato, locale, addetto alle stalle ed al caseificio. Di fronte vi era un agrumeto. In alto sulla sinistra si andava verso le dighe in muratura, preziosa riserva idrica dalla quale si ricavava l'energia elettrica per l'azienda. Avevano importato dall'Italia delle carpe, che avevano trovato un habitat molto favorevole in quei bacini. Infatti crescevano numerose e saporite. Le pescavamo usando per esca una speciale pastella di uno strano composto a base di mais e formaggio grana, inventato dal casaro, che però funzionava davvero. Sulla destra invece, tra agrumeti ben recintati e divisi da ordinate strade asfaltate, si accedeva al cuore dell'azienda, dove, a destra di un viale di magnifici flamboiant, c'erano gli uffici, la falegnameria per la fabbricazione delle cassette per la frutta, il centro di imballaggio, ed il conservificio, dove si preparavano ed inscatolavano pomodori pelati e salse di pomodoro per il mercato locale ed esportazione. Alla sinistra del viale vi era la chiesa e l'abitazione della famiglia De Nadai, poi le tre villette dei capi azienda, quindi il "piazzale". Questo era l'ombroso spiazzo di fronte alla vecchia, ma perfettamente conservata e carica di fascino per il suo stile coloniale, abitazione dell'originario proprietario dell'azienda, Casciani, vicino agli alloggi per gli scapoli ed alla mensa aziendale.
Il "piazzale" era per noi ragazzi il luogo d'incontro per trascorrere quelle lunghe meravigliose giornate di vacanza, oppure le calde serate, mentre i genitori erano riuniti nella sala mensa (che fungeva da circolo-dopolavoro) a giocare a briscola, scala quaranta o ramino, oppure - tutti insieme - a tombola.
A valle c'era la zona Cenduk, dove era l'officina per la manutenzione del macchinario e la vecchia, odorosa fabbrica di corda ricavata dall'agave. A valle vi erano anche le coltivazioni di peperoni e pomodori, gli uni per l'esportazione in Europa e gli altri per la lavorazione al conservificio. Stagionalmente vi erano anche le distese di erba medica, o Alpha-alpha, per l'alimentazione del bestiame.

Poco distante da casa De Nadai, c'era il famoso baobab dove i ragazzi avevano costruito una "casa" che, scalata, assumeva di volta in volta la funzione di nave pirata, aereo di guerra, fortino, casa ... non essendoci limite alla fantasia dei nostri giochi.
Ma anche ogni pianta di mango era una valida possibilità di scalata. Noi eravamo perennemente arrampicati, quasi noi stessi fossimo i freschi e meravigliosi frutti di tutti gli alberi da frutto dell'azienda. Bastava fossero grandi, frondosi e alti ed erano nostri. Ricordo un filare di Zaituni (Guava) che, avendo i rami lisci e robusti, usavamo per "appenderci" con le gambe, lasciandoci andare a testa in giù. Erano gare di resistenza, nelle quali noi ragazze nulla avevamo da invidiare ai maschiacci, tanto eravamo in perfetto clima di "pari opportunità". I nomi dei "fissi": Francesco, Danilo, Pina & Anna De Nadai, Pietro e Laura Casciani, Daniela, Antonella & Marisa Toti, Angelo e Pina Chirizzi, Sonia e Giancarlo Ertola. A periodi, c'erano i nostri amici compagni di scuola "visitors da Asmara" tra i quali Danila Boattini, Ionne Bristot, i Di Giulio, (e chissá quanti altri). Poi c'erano I vicini/confinanti di concessione: Ninfa, Pia Giulietta & Roberto, Pasquale, Luciano, Marcello Acquisto & la sorella di cui ora mi sfugge il nome. Eravamo anche uguali a vedersi: in calzoncini e maglietta e capelli corti, (ogni mese il più sportivo dei barbieri ed il barbiere degli sportivi, come simpaticamente si definiva Domenico Lobbia, veniva a "potare", indistintamente chiome di uomini e donne, grandi e piccini).

La Chiesa
Gli agrumeti
Il conservificio
Le case, il caseificio,
le stalle
La grande diga

Alle sei di sera suonava il Vespro. Allora, ovunque fossimo, si correva tutti in Chiesa. Dato che non era rispettoso che noi bambine si andasse in Chiesa in calzoncini (monelle sì, ma pur sempre al femminile), le mamme avevano preparato una gran varietà di gonnelline arricciate in vita da un elastico che con molta praticità si potevano infilare sopra gli shorts, consentendoci rapidamente una decorosissima entrata in Chiesa per il Santo Rosario. Ci fu anche il periodo del ricamo-a-tutti-i-costi. Non so a chi venne in mente (probabilmente alla Signora Linda) l'idea che fosse senz'altro più consono alle ragazzine un pomeriggio di ricamo che non la scalata sul baobab o sulle piante di mango, fatto é che per "almeno" un paio d'ore tutti i giorni dovevamo ricamare. Ma le cose fatte insieme non pesano più di tanto per cui, all'ombra dei berceau ho imparato il chiacchierino (me lo insegnò la signora Gradisca), l'orlo a giorno, i punti quadro, erba e pieno. Un inutile tentativo all'uncinetto mi invise il genere, mentre la maglia mi dava più soddisfazione.

Papà ci portava spesso con lui nei suoi giri di perlustrazione per l'azienda, a bordo della sua Land Rover. Se c'era stata pioggia durante la notte, allora si faceva attenzione ai termitai che, numerosi, svettavano nella valle, perché proprio vicino ai termitai spesso si trovavano dei funghi profumati e, secondo una teoria di Papà, sicuramente commestibili. La teoria non fu mai sfatata e sono qui a raccontarvela. Il motivo principale però dei giri di controllo di Papà era l'acqua, questo prezioso elemento di vita, che veniva convogliata dal monte Giaogiao, o Dente del Diavolo, alle dighe in terra per mezzo di una canaletta lunga una dozzina di chilometri.
Una volta andai con Papà fin su al Giaogiao a piedi. Papà si disse certo delle mie capacità di scalatrice dandomi così il 'la' per confrontarmi con l'impresa, che, devo dire, riuscì: il mio primo trekking, ma allora non sapevo nemmeno l'esistenza di questa parola!
Il periodo delle piogge coincideva con quello delle vacanze, per cui Elaberet era sempre verdissima, il fieno cresceva alto e sbocciavano spontanee le Gloriose Abissiniche. La fine del periodo delle piogge veniva annunciato dai gialli fiori del Maskal, e tutti gli uccelli cambiavano il piumaggio, diventando coloratissimi. Bengalini dal petto azzurro e rosso, Vedovelle con la coda lunga dai metallici riflessi blu, Tessitori rossi o gialli e neri che fabbricano nidi elaborati …

Elaberet era davvero il "Giardino".

30 Maggio 2005
Tutte le foto tratte dalla pubblicazione Etiopia Illustrata

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